
Intervista al Sindaco Antonio Sabino
Gli immobili confiscati: da ferite del territorio a strumenti di rinascita sociale
A cura dell’ Avvocato Lelio Mancino
D. Sindaco Sabino, negli ultimi anni il tema degli immobili confiscati alla criminalità è diventato centrale. Qual è stata la sua visione nell’affrontare questo tema?
R. Ho sempre pensato che gli immobili confiscati non siano soltanto simboli del potere criminale sottratto alla camorra o ad altre organizzazioni mafiose, ma rappresentino una grande occasione di riscatto per la comunità. Il mio obiettivo è stato trasformare quei luoghi da segni di illegalità a spazi di legalità, cultura e inclusione. Restituirli ai cittadini è un atto di giustizia, ma anche un’opportunità concreta per creare lavoro, servizi e nuove forme di aggregazione sociale.
D. Qual è stata la procedura che avete seguito nel Comune da Lei guidato per rendere effettivo l’affidamento di questi beni?
R. La procedura parte sempre da un’attenta ricognizione del patrimonio confiscato disponibile. È fondamentale lavorare in stretto raccordo con l’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati e con la Prefettura. Poi abbiamo aperto bandi pubblici e trasparenti, coinvolgendo associazioni, cooperative sociali, fondazioni e realtà del terzo settore. Abbiamo voluto che i progetti non fossero calati dall’alto, ma nascessero da proposte concrete e sostenibili, capaci di garantire nel tempo la valorizzazione degli immobili. Infine, abbiamo accompagnato gli affidatari con un costante dialogo, perché il Comune non deve limitarsi a “consegnare le chiavi”, ma deve restare un partner.
D. A quali attività sono stati destinati gli immobili confiscati nel suo Comune?
R. Alcuni immobili sono stati trasformati in centri di aggregazione giovanile, altri in spazi culturali, biblioteche di quartiere e laboratori artigianali. In particolare, abbiamo voluto incentivare le attività rivolte ai giovani e ai soggetti fragili: servizi per l’inclusione, sostegno scolastico, attività sportive e culturali, ma anche progetti di inserimento lavorativo attraverso cooperative. È stata una scelta precisa: non solo togliere i beni alla criminalità, ma restituirli con una funzione sociale chiara, visibile, tangibile.
D. Quanto è stato importante il coinvolgimento del terzo settore?
R. Direi fondamentale. Il terzo settore ha la capacità di radicarsi sul territorio, conosce i bisogni della comunità e riesce a dare continuità ai progetti. Senza associazioni e cooperative, la gestione degli immobili rischierebbe di restare solo un atto formale. Il loro lavoro quotidiano è quello che rende vivo e credibile il processo di riutilizzo.
D. Quali suggerimenti si sente di dare agli altri amministratori che oggi si trovano a gestire una grande mole di beni confiscati?
R. Il primo consiglio è di avere coraggio e determinazione: i beni confiscati non devono essere visti come un problema, ma come una risorsa. Il secondo è garantire trasparenza e partecipazione: bandi chiari, criteri oggettivi e coinvolgimento delle comunità locali. Infine, non bisogna lasciare sole le associazioni che prendono in carico gli immobili: serve un’alleanza forte tra istituzioni, società civile e cittadini. Solo così i beni confiscati diventano davvero presidi di legalità e di sviluppo.
D. Quindi, in conclusione, possiamo dire che l’esperienza del suo Comune può essere un modello replicabile?
R. Io credo di sì. Ogni territorio ha le sue peculiarità, ma l’impostazione di fondo può essere ripresa ovunque: trasparenza, partecipazione, sostegno concreto agli enti del terzo settore. L’Italia ha una mole enorme di beni confiscati, e non possiamo permetterci di lasciarli abbandonati. Devono tornare a vivere e a generare valore per le comunità.